SEZIONE SPORT
Paolo Radi intervista
NICOLAS
ROSSI
Nicolas Rossi ex giocatore è ora un allenatore è cosi ci si presenta:
“Mi chiamo Nicolas Rossi e sono nato a Roma.
Mi avvicino al calcio fin da piccolo giocando fino all ‘età di 29 anni in categorie dilettantistiche. Negli ultimi anni avevo iniziato il percorso come allenatore nelle scuole calcio per poi farlo diventare oggi un vero lavoro.
La mia carriera da allenatore inizia nel 2014/2015 quando mi occupo di un gruppo di under 13 dell’infernetto calcio. Dopo di che passo ad una società all’epoca in crescita nel panorama laziale come SFF ATLETICO, ci rimango 3 anni allenando prima under 11 poi under 12 e under 13.
Finito il percorso con questa società passo a fare un under 14 provinciale con un collega amico di nome Claudio, peccato che per il covid la stagione come sappiamo fu bloccata.
L’annata successiva decidiamo di rimanere insieme e di continuare con quel gruppo e fare l’under 15 provinciale, tra l’altro riusciamo a vincere nell’ultima giornata.
Lì poi arrivò la possibilità di arrivare all’Urbetevere una delle società d’élite del calcio laziale.Entro all urbetevere per allenare l’under 12 e fare il collaboratore nell under 17 élite di Alessandro che ci tengo a ringraziare per l’opportunità data e gli altri dello staff(alessio,Edoardo,Mirko ,Giancarlo e Mario) per l’annata straordinaria.
Stagione in cui vinciamo un campionato élite e raggiungiamo una finale per il titolo regionale persa purtroppo negli ultimi minuti, ma esperienza tecnica e umana di un valore assoluto. Quest’anno invece sono ancora all’Urbetevere alleno l’under 13”.
La prima domanda che le voglio fare è la seguente, dove sta andando il calcio italiano, a differenza di quello spagnolo, francese, inglese, tedesco?
Credo che il calcio italiano attraversi un periodo storico con meno qualità e talento rispetto al passato. Il calcio italiano sta provando a stare al passo di altri paesi che investono molto di più in questo sport nei settori giovanili, nei centri sportivi nelle attrezzature e nei tecnici ma è complicato perché dalle altre parti lo fanno davvero. In Spagna hanno una loro metodologia e una loro visione che da anni sta portando fuori talenti e risultati. In Francia, anche per il suo passato coloniale, hanno una scelta e di conseguenza una qualità media molto buona. L’Inghilterra gode probabilmente delle cifre più alte e di conseguenza di tutto il resto.
Aldilà di questo in Italia abbiamo perso la cultura di mandare a giocare i ragazzi per strada. Di fargli fare esperienze con i più grandi formative sia a livello calcistico ma anche umano. Oggi i ragazzi non giocano più per strada e questo influisce.
Quando ha scoperto che il calcio sarebbe diventato la sua più grande passione?
Fin da quando ero piccolo il mio giocattolo preferito è sempre stato il pallone. Eppure in famiglia sono il primo. Un amore nato e cresciuto negli anni. Il calcio per me è stato ed è un qualcosa di straordinaria importanza nella mia vita.
I suoi genitori hanno cercato di assecondarla, oppure le hanno detto la classica frase: “...non sarebbe meglio che pensassi allo studio?”
I miei genitori hanno rispettato sempre questa mia grande passione mettendo in risalto però sempre che lo studio era importante.
Ma soprattutto colgo l’occasione per ringraziarli per non avermi mai messo una pressione o una aspettativa. Ho vissuto il calcio con leggerezza e di questo ne sono molto contento.
Perché ha deciso a un certo punto della sua vita di diventare allenatore?
Ho deciso di iniziare questo percorso da allenatore perché sentivo dentro qualcosa che mi diceva che volevo guidare un gruppo.
Mi ritengo uno che anche in campo lo è sempre stato. Saper guidare un gruppo è una cosa molto complicata anche da spiegare.
Da diverso tempo lei allena l’Urbetevere, che tipo di società è? Immagino che lei si trovi bene?
Sono due anni che sono all’ Urbetevere e la ritengo una società dilettantistica in cui per molte cose si lavora come una professionistica. Lavoro con tecnici, preparatori che lavorano in maniera importante con competenze e conoscenze importanti. L’Urbetevere la sento casa mia e quando senti fiducia lavori meglio.
Qual è la principale qualità che deve avere un allenatore?
Fare l’allenatore è tante cose.
Fare l’allenatore è avere competenze e conoscenze trasmetterle, è guidare un gruppo di 20 personalità diverse, far l’allenatore è parlare con i propri giocatori dell’aspetto tecnico, ma anche dei loro problemi, infine fare l’allenatore nella settimana è un fatto, farlo in partita è tutt’altro. Ho sempre pensato sia uno dei lavori più difficili o complicati che ci sia. Ma credo che l’empatia sia una delle cose più importanti per un allenatore.
Generalmente che consigli da ai suoi giocatori prima di entrare in campo?
Ai miei giocatori prima di entrare in campo dico di divertirsi e di stare insieme nella difficoltà e nelle cose fatte bene.
Di dare tutto l’uno per l’altro. Uso spesso la parola insieme mi piace molto. Le grandi squadre ottengono grandi risultati tutti insieme.
Immagino che non sia facile allenare degli under 13, ci vorrà molta pazienza, molta empatia, e quando è ora essere autoritari, è così?
Allenare un under 13 non è facile è in età molto particolare. Iniziano ad essere grandicelli e iniziano a vivere le prime libertà.
Ho la fortuna e il privilegio di allenare un gruppo di ragazzi straordinari e di questo ne sono orgoglioso e grato. A loro dico sempre che devono sapersi adattare al contesto dove sono e comportarsi di conseguenza. Ma ripeto: sono un gruppo straordinario.
Una domanda che faccio spesso, grandi calciatori si nasce, oppure ci si può riuscire con duro allenamento e una vita sana?
Il talento è un dono che va coltivato e annaffiato ma averlo è molto importante. Si può diventare grandi calciatori con il lavoro la costanza e tanto altro, ma fenomeni no. Il fenomeno per me è quello che ha un talento sopra la media e abbina al resto.
Ultimamente si parla spesso di casi di frasi razziste urlate da contro giocatori di colore, lei cosa ne pensa, si tratta solo di ira momentanea, oppure c’è altro?
Il razzismo è una tematica tremendamente importante e delicata. Il razzismo va combattuto e il calcio deve essere un mezzo per farlo.
Che cosa le sta dando il calcio e che cosa le sta togliendo?
Il calcio a me ha dato tanto, mi ha formato caratterialmente, mi ha dato la possibilità di sapermi relazionare con tante persone.
Con il calcio mi sono aperto perché ero molto introverso, ho avuto la possibilità di aver incontrato alcune persone che ora fanno parte della mia vita quotidiana, posso affermare con certezza che sono fratelli per me. Il calcio mi ha dato supporto nei momenti di difficoltà. “Mi sono aggrappato” a questo sport quando alcune situazioni nella vita non andavano.
Mi ha tolto tempo, quello sì, ma essendo uno dei doni più importanti il tempo ne sono molto contento di avergliene dedicato tanto.
Un suo pregio e un suo difetto, dal punto di vista calcistico?
Un mio pregio penso che sia quello di saper entrare nella testa dei ragazzi. Sono uno che sull’aspetto umano ci conta tanto. Mi ritengo un allenatore molto empatico. Ma questa sarebbe più una domanda da fare ai miei ragazzi. Un mio difetto sicuramente è quello di pensare al calcio 24 ore su 24.
Un sogno per il futuro?
Il mio sogno è andare avanti e fare sempre meglio.
Che poi questo possa significare allenare una categoria élite o andare in una professionistica non lo so, ma voglio lavorare per migliorami e migliorare chi alleno. Darò tutto me stesso.
A chi vorrebbe dedicare quest’intervista?
La dedico alla mia famiglia e a mia nonna che non c’è più. Ai ragazzi che ho allenato e che alleno, sono loro il motore di tutto ciò. A chi lavora con me ogni giorno. Ma soprattutto ad Alessio un mio caro amico scomparso qualche anno fa con cui condividevo questa grande passione.
Grazie
03 04 2024
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