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martedì 22 novembre 2016

PAOLO RADI INTERVISTA…




   22  Novembre  2016




CONVERSAZIONE

CON IL GENERALE GIOVANNI MARIZZA



LA STORIA E’ LA RICERCA DELLA VERITA’ STORICA.










IL GENERALE IN PENSIONE DEGLI ALPINI  GIANNI MARIZZA HA INOLTRE HA PARTECIPATO A DIVERSE MISSIONI DI PACE ALL’ESTERO, DAL MOZAMBICO ALL’IRAQ. IN QUESTO PAESE E’ STATO VICE COMANDANTE DELLA FORZA MULTINAZIONALE DI PACE. È STATO INOLTRE PRESIDENTE DI UN IMPORTANTE COMITATO DI PIANIFICAZIONE DELLA NATATO E DIRETTORE DELL’ISTITUTO ALTI STUDI PER LA DIFESA, E’ AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI E SAGGI IN MATERIA DI GEOPOLTICA E STORIA MILITARE. FRA I VARI RICONOSCIMENTI SPICCA LA LEGION D’ONORE FRANCESE E LA LEGIONE DI MERITO STATUNITENSE



Generale Giovanni Marizza, Lei ha un curriculum a dir poco invidiabile, Lei ha pubblicato circa 30 libri, da dove nasce questa passione per la scrittura?

Dal desiderio di fissare certe memorie, preservandole dal possibile oblio.








Come mai decise dopo le scuole superiori di intraprendere la carriera militare? C’era alla base una motivazione particolare?


Era un momento storico particolare: il Sessantotto. Tutto veniva messo in discussione, tutto doveva cambiare (ovviamente in peggio), tutto veniva contestato: i valori tradizionali, la religione, la famiglia, l’autorità, la scuola. Quest’ultima si stava trasformando in un “ignorantificio” e le uniche università che funzionavano in modo serio erano le Accademie militari. Da questo punto di vista, per me la scelta fu quasi obbligata.









Veniamo adesso a una missione che in pochi in Italia ricordano: la missione dell’ONU in Mozambico denominata ONUMOZ e condotta dal contingente italiano “Albatros” (dal primo marzo 1993 al primo aprile 1994) con l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Alpina Taurinense. Come sappiamo, l’Italia contribuì alla missione sin dall’inizio con un contingente di oltre mille uomini fornito dalle Brigate “Taurinense” prima e “Julia” poi. Che ricordi ha di questa missione che si concluse con un ottimo esito?


Che si sia conclusa con un ottimo esito è indubbiamente vero perché ancora oggi viene definita “l’unica missione dell’ONU coronata da successo”. I ricordi sono indelebili: le prime ricognizioni effettuate in Africa australe, l’accurata preparazione del personale, i primi contatti con gli esponenti delle due fazioni armate (la filo-occidentale RENAMO e il filosovietico FRELIMO), il trasferimento di un poderoso contingente via nave e aereo, l’espletamento del compito nel delicato Corridoio di Beira, il graduale ritorno alla normalità della popolazione stremata, il ritorno nei loro paesi degli eserciti stranieri occupanti, le prime elezioni politiche, la costituzione delle nuove forze armate mozambicane attingendo in parti uguali fra gli ex guerriglieri e gli ex governativi, la distribuzione degli aiuti umanitari, gli sguardi grati della gente…



Lei ha citato “l’accurata preparazione del personale”. Può essere più preciso?


Il Mozambico era il paese più povero al mondo, le condizioni della popolazione erano precarie, l’ambiente naturale era ostile, le condizioni climatiche erano estreme. In situazioni del genere non ci può essere spazio per l’improvvisazione e pertanto l’addestramento preventivo del personale ha rappresentato un momento fondamentale. Abbiamo organizzato corsi di lingua portoghese per tutto il personale, abbiamo indottrinato accuratamente i militari sulle caratteristiche, usi e costumi del paese in cui avremmo operato, abbiamo anche istruito, in un’area appositamente attrezzata, tutti i conduttori di automezzi a guidare mantenendo la sinistra. Il risultato è stato che ciascun singolo Alpino è giunto in Mozambico del tutto conscio di ciò che avrebbe incontrato e perfettamente in grado di affrontare e risolvere i problemi.








Mentre Lei era impegnato in Mozambico, contemporaneamente l’Italia si trovava in Somalia con la missione Ibis, al comando prima del Generale Bruno Loi e poi del Generale Carmine Fiore, eppure ci ricordiamo sempre della missione Ibis, mentre pochissimo di quella sopra menzionata. Quali sono secondo lei i motivi?


Il motivo è semplice: in Mozambico tutto andò bene e delle cose che vanno bene i mass media non si interessano: meglio trattare (e possibilmente gonfiare) attentati, sparatorie, scandali, rapimenti, uccisioni… Purtroppo il contingente italiano in Somalia, nonostante l’indiscutibile professionalità dei Comandanti da Lei citati e dei capi e gregari a tutti i livelli, non ebbe la fortuna che meritò. Il motivo principale sta nelle caratteristiche estremamente diverse delle due operazioni: di puro peace-keeping quella in Mozambico in seguito ad un accordo di pace firmato dai due contendenti, e di   peace-enforcement in un difficile ambiente da “tutti contro tutti” quella in Somalia.



Mi scusi se ritorno sulla missione Ibis, perché da parte di molti che vi hanno partecipato c’è poca voglia di raccontare, o per lo meno di raccontare a livello oggettivo “che cos’è stata quella Missione”. Mi domando, forse perché abbiamo avuto diversi morti e un centinaio di feriti, oppure perché le morti della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin sono avvolte nel mistero?



E’ normale che i ricordi spiacevoli tendano ad essere rimossi. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia le memorie vengono di norma manipolate (esaltandole oltre misura o nascondendole colpevolmente) a seconda delle convenienze politiche, ecco spiegato il motivo per cui la missione Ibis risulta avvolta dall’oblio. Un altro esempio? Pochi giorni fa ricorreva il triste anniversario di Nassirya: nessun telegiornale ne ha parlato.









Cosa hanno rappresentato queste missioni per l’evoluzione dello strumento militare italiano, che oggi è interamente professionale ma all’epoca era ancora basato sul servizio militare obbligatorio?

Queste due operazioni (o meglio tre, perché non dobbiamo dimenticare la contemporanea missione “Pellicano” in Albania) hanno rappresentato un autentico punto di svolta: l’Esercito Italiano, orientato per tutta la Guerra fredda a difendere staticamente la “soglia di Gorizia”, si è ritrovato da un giorno all’altro ad impiegare tre Brigate fuori area contemporaneamente. Significativo è stato l’aspetto “volontariato” nel caso del Mozambico. La Brigata Alpina Taurinense, benché addestratissima e abituata ad operare all’estero (all’epoca esprimeva il Contingente “Cuneense”, unico reparto dell’Esercito facente parte della Forza Mobile della NATO) era composta da personale di leva ma in base ad una direttiva ministeriale tutti gli Alpini dovevano essere “volontari” nel loro impiego in Africa Australe. Si correva il rischio di ripetere l’esperienza del contingente in Libano, che un decennio prima, per garantire la medesima “volontarietà”, aveva costretto al setacciamento dell’intero Terzo Corpo d’Armata per costituire un battaglione di formazione. E invece la risposta degli Alpini fu sorprendente ed encomiabile: tutti in blocco si dichiararono “volontari” e non furono pochi i casi di coloro che spontaneamente rinunciarono al congedo, posticipandolo in maniera tale da portare a termine la missione. Si fece di più: si sondarono le motivazioni dei singoli mediante questionari anonimi e anche in questo caso la risposta fu incoraggiante. Venne alla luce, infatti, che la motivazione largamente maggioritaria ambiva a rendersi utile nei confronti di una popolazione estremamente bisognosa, mentre decisamente trascurabile fu la percentuale di chi si dichiarò attratto dal guadagno economico o dallo spirito di avventura.



Che cosa rappresentano per lei gli Alpini? Sono amati ovunque e la gente li segue con passione, perché questo amore del popolo italiano verso questo corpo?


Gli Alpini, unico Corpo che riesce a portare mezzo milione di persone alle adunate, sono amati ed ammirati per il loro ineguagliabile spirito di corpo e per quanto fanno non solo durante il servizio militare ma soprattutto dopo di esso, in termini di solidarietà e di interventi umanitari in favore delle popolazioni colpite da calamità. Oserei dire che senza gli Alpini in Italia non ci sarebbe la Protezione Civile.



Mi permetta ora una domanda che potrebbe sembrare scomoda, ma che in realtà non lo è per chi ama la verità storica. Nel 1941 l’Italia dichiara guerra alla Russia. L’Italia inviò 10 divisioni di cui tre erano alpine. Il Generale Gabriele Nasci comandante del Corpo di spedizione alpino aveva dato ordine di rispondere “con rappresaglie di severità esemplare” ad ogni atto ostile. Le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli nel caso fosse necessario. I commissari politici delle forze armate sovietiche, i “ribelli“ e gli “elementi indesiderati” come ebrei e nomadi venivano consegnati il più presto possibile ai Tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro destinato. Le risulta che questo appartenga alla verità storica, oppure si tratta di documenti russi redatti per screditare l’esercito italiano nel dopoguerra?


Si tratta in gran parte di esagerazioni propagandistiche. Io piuttosto porrei l’accento sugli innumerevoli casi di fraternizzazione fra reparti alpini e popolazione civile e di aiuto reciproco, soprattutto nelle tragiche fasi della ritirata.



Sono rimasto molto colpito da un suo pensiero pubblicato sul social network Facebook : “VITTORIA! Sì, ma de che?” in occasione del 4 novembre: “….Il Regio Esercito italiano il primo giorno di guerra stava sullo Judrio e l’ultimo giorno di guerra stava sul Piave, cento chilometri più indietro. Diciamoci la verità almeno in occasione del centenario della “inutile strage”. Sono rimasto molto colpito perché Lei sembra volersi discostare dalla solita retorica inerente alle celebrazioni del 4 novembre. Come mai ha pubblicato questa utile riflessione storica?


Intendiamoci: almeno il 95% di ciò che ci è stato raccontato sul risorgimento, sulle guerre di “indipendenza” (che tutto furono fuorché di indipendenza) e sulle guerre mondiali è falso, frutto di verità di comodo costruite a tavolino. Ciò che sorprende è che oggi, a distanza di oltre settant’anni dalla caduta della monarchia sabauda e del regime fascista che quelle frottole inventarono, si continui a parlare imperterriti di guerre di indipendenza o di vittoria militare nella prima guerra mondiale. E’ lampante il fatto che gli eserciti degli Imperi Centrali alla fine della guerra si trovassero ben oltre i loro confini e che il crollo di quegli Imperi debba attribuirsi agli effetti dell’embargo economico e commerciale che li ridusse a morire di fame. La “vittoria” del 4 novembre, dunque, tutto fu fuorché militare. Ma è anche vero che se lo faccio notare a certi miei colleghi che si nutrono di falsi miti e di vittorie taroccate, è come far notare ai partigiani che nel 1945 l’Italia non venne liberata da loro ma dagli Alleati: la loro reazione è simile all’attacco isterico che ha colto Hillary Clinton dopo la sconfitta nelle elezioni presidenziali americane.









A questo proposito, Generale, mi permetta quest’ultima domanda. Il 20 gennaio 2017 Donald Trump entrerà alla Casa Bianca. In questo momento assistiamo ad un vero e proprio “tifo da stadio”: alcuni sono entusiasti mentre altri temono un imbarbarimento della società occidentale, c’è chi lo ha già paragonato a Hitler. A suo avviso quali saranno i futuri scenari geo-politici? Mi riferisco alla Siria, all’Afghanistan e ai rapporti USA – Russia. Qualcosa cambierà oppure la situazione non muterà affatto?


Se c’è qualcuno da paragonare al dittatore tedesco, quella è “Hitlery” Clinton.
Quando per disgrazia del mondo intero era alla testa del Dipartimento di stato americano ha inventato le false “primavere arabe”, ha destabilizzato il Medio Oriente e il Nord africa, ha causato l’assassinio del suo stesso ambasciatore a Bengasi, ha inventato, armato e sovvenzionato l’Isis, ha scatenato un’ondata di immigrazione clandestina che sta mettendo in ginocchio l’Europa intera, ha raggiunto il punto più basso nelle relazioni fra l’Occidente e la Russia, ci ha portati sull’orlo della terza guerra mondiale senza parlare dei suoi misfatti nazionali (corruzione, scandalo delle emails, eccetera…). Il tutto in combutta con il premio Nobel “per la pace” Barak Obama. Trump, per lo meno, non ha mai fatto niente del genere. E se riuscirà a normalizzare le relazioni con Mosca, se eviterà di esportare la democrazia con le armi, se otterrà che l’Europa sia più assertiva e responsabile nella propria difesa anziché dipendere da oltreoceano, ben venga Donald Trump.





Grazie per l’intervista.








mercoledì 2 novembre 2016

PAOLO RADI INTERVISTA…





02   Novembre  2016






CONVERSAZIONE

CON EUMIR MARTINELLI





  
IN CIMA AL MONDO



Eumir Martinelli (di Bormio)  come professione fa l’Assistente Capo della scientifica presso il commissariato di Polizia di Bressanone (BZ) ha raggiunto il 30  settembre alle 13.15  la vetta più alta del Cho Oyu – 8210 metri, senza l’aiuto delle bombole di ossigeno. La cima della montagna è la sesta più alta del mondo al confine tra la Cina e il Nepal.  Noi gli abbiamo rivolto qualche domanda.








Signor E. Martinelli, lei è nato in montagna, la prima domanda è d’obbligo, quando ha maturato l’idea di far lo scalatore?

Non mi ritengo uno scalatore...o almeno non uno scalatore vero, di quelli che compiono imprese epiche, arrampicate tecniche su pareti impossibili...il mio livello tecnico è abbastanza basso e di conseguenza i miei obbiettivi sono tecnicamente facili. Certo mi piace la montagna ma preferirei considerarmi un appassionato, un amatore, una persona che cerca di evolversi attraverso la fatica e trovo che la montagna sia un ottimo mezzo per raggiungere lo scopo. L'amore per la montagna è nato naturalmente all'età di 20 anni circa, alla fine della mia carriera come atleta della nazionale di sci. Era l'unico modo ed il più facile per crescere nel miglior modo. Quindi più un mezzo per raggiungere uno scopo piuttosto che una passione fine a se stessa.




Abbiamo appreso che lei lavora presso il Commissariato di Bressanone, e questo ci ha un po’ stupito, molti, si aspettavano che lei facesse un’altra professione, ad esempio la guida alpina, oppure che insegnasse come si scala una montagna, come ha maturato la scelta di entrare nella Polizia? 

 All'epoca del mio arruolamento ero nella nazionale italiana di sci alpino quindi sono entrato in Polizia per meriti sportivi e ho fatto parte del gruppo sportivo Fiamme oro per alcuni anni. Come ho detto prima la mia passione per la montagna è sempre stata un metodo personale per raggiungere obbiettivi di tipo psico-fisico e quindi non mi interessano assolutamente altri discorsi.








Da come abbiamo capito, questa è la seconda spedizione, come si era conclusa la prima?

Nel 2010 sono andato in Nepal par scalare il Manaslu (8000 metri), l'ottava montagna al mondo, ma probabilmente non ero abbastanza pronto, più con la testa che con il fisico; a dispetto di quello che pensa la maggioranza delle persone per scalare montagne di questa portata serve più forza mentale che fisica. Di conseguenza il fisico, per una sorte di autoprotezione, ti lancia degli avvertimenti cercando di “autopreservarsi”, ma il tuo effettivo limite è ancora distante, è in questo momento che entra in gioco la determinazione mentale che ti fa andare oltre.


La missione è iniziata  il 28 agosto e si è conclusa l’8 di ottobre, che cosa ha pensato prima di muovere il prima passo verso questa vetta?

Il primo passo l'ho mosso quasi 2 anni prima, nel momento in cui ho deciso di scalare il Cho Oyu, da quel giorno non c'è stata una sola giornata in cui non ho pensato a quella montagna e a come avrei voluto che questa spedizione andasse !!! E' stata quasi un'ossessione, su certe cose sono molto meticoloso, ho solamente cercato di fare tutto del mio meglio, ma non per arrivare in cima piuttosto per non avere rimpianti successivamente. Quest’anno se non fossi arrivato in cima sarei stato comunque felice perché ho sempre fatto del mio meglio per lo scopo e sono soddisfatto di quello che questi due anni mi hanno dato.







A questo punto le chiedo, arrivato alla vetta, qual è stato il suo primo pensiero?

Il momento che sono arrivato in vetta non è stato particolarmente emozionante, certamente c'è stata felicità e sollievo ma niente di particolare, oltretutto a quota 8000 la mente è abbastanza offuscata e "lenta"  a causa della carenza di ossigeno quindi anche i pensieri non sono propriamente nitidi. Di momenti difficili ce ne sono stati parecchi, il giorno dopo la vetta, alla 6 di mattina, al campo 3 a 7600 metri ho avuto una crisi di ipossia mentre ero in tenda. Questa crisi è stata causata  probabilmente alla permanenza di 4 giorni oltre i 7200 metri e all'esaurimento dell'ossigeno all'interno della tenda.
Ho veramente pensato di morire...la cosa si è poi risolta in 15 minuti...ma le difficoltà più grandi le ho avute tutte le volte che ero stanco, ma dovevo fare i miei allenamenti, alle incredibili fatiche, alle rinunce, anche economiche, al tempo rubato ai miei cari per poter seguire il mio sogno.




 Mi diceva che un’altra fase pericola è la discesa, perché? Dovrebbe essere meno difficile della salita. Non essendo un esperto ecco perché le rivolgo questa domanda?


Quando arrivi in cima ad una montagna sei solo a metà del tuo cammino, arrivare in cima ad quota 8000 metri senza ossigeno significa spingere in proprio fisico fino all'esaurimento quasi totale delle proprie energie. A quelle quote si fatica ad allacciarsi le scarpe, si fatica a girarsi nel sacco a pelo, due passi più veloci del dovuto e sei in pericolosa carenza d'ossigeno. Tutto è fatica e dover affrontare 2000 metri di discesa è assolutamente impegnativo. La prima causa di morte su queste montagne è lo sfinimento.









Lei ci ha stupiti, e molti hanno scritto sui vari social, finalmente un vero campione, come ci si sente a essere così conosciuti, la vita cambia oppure rimane sempre la stessa?


Non mi ritengo assolutamente un campione e i social tacciono dopo due giorni dalla notizia. Certamente fa piacere che molti apprezzino quello che hai fatto e la persona che sei, ma sinceramente preferisco l'anonimato, sarei più felice di poter trasmettere un messaggio costruttivo, un metodo pratico che dia risultati pratici, qualcosa che veramente riesca a far capire alla gente che tutti possiamo essere speciali, che ci sono strade che possono farti crescere e renderti migliore. Ognuno ha una strada che porta ad evolversi, chi la trova nella montagna, chi la trova nell'uncinetto o nello studio, c'è chi trova la propria realizzazione nell'alzarsi alle 4 della mattina per scattare una foto ma bisogna cercare, andare a fondo.




Un’ ultima domanda, essere sulla vetta del mondo, ti fa sentire l’immensità dell’universo, oppure la sensazione che tutto ciò sia opera di un essere superiore?

L'essere superiore ti attraversa nel momento in cui stai facendo del tuo meglio e sei felice di quello che sei.
 L'immensità dell'universo l'ho sentita anche quando sono andato a visitare gli orfanotrofi di Madre Teresa a Calcutta in India. Non è necessario andare in cima ad una montagna, tutto quello di cui abbiamo bisogno è dentro di noi, Dio compreso.








L’intervista termina qui, un grazie particolare, e di nuovo complimenti per la sua impresa, siamo tutti sbalorditi.