Archivio blog

domenica 11 dicembre 2016

PAOLO RADI INTERVISTA







11 Dicembre 2016






CONVERSAZIONE

CON MASSIMO REALE



QUESTA SERA SI VA IN SCENA…








Massimo Reale  è un attore nato a Firenze nel 1966.  Comincia a recitare a nove anni con il maestro Dino Parretti. Nel 1986, si trasferisce a Roma ed entra all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio d'Amico che frequenta per due anni.
Negli anni successivi porta avanti in parallelo l'attività teatrale e quella cinematografica e televisiva prendendo parte a molte fiction e lavorando accanto ad attori come: Renzo Montagnani (Don Fumino), Nino Manfredi (Le Ragioni del Cuore), Lino Banfi (Un posto tranquillo 1 e 2), Beppe Fiorello (Salvo D'Acquisto), Paolo Ferrari (Orgoglio).
Nel 1994 lavora con Luca Zingaretti allo spettacolo Prigionieri di guerra con il quale recita nuovamente nel 2000 nello spettacolo di David Mamet Perversioni Sessuali a Chicago insieme a Valentina Cervi.
Nel 2006 vince il premio per il miglior soggetto per documentario al Festival Hai Visto Mai? e nel 2007 lo realizza, cedendolo all'emittente La7.
Nel 2008 recita al teatro di Tindari nel Giulio Cesare di Shakespeare con la regia di Maurizio Panici. Nel 2011 prende parte alla prima puntata della serie tv "Che Dio ci aiuti" e, nel 2013 prende parte alla serie "Rex 7", dove interpreta il ruolo del criminologo Carlo Papini. Dal 9 Novembre 2016 recita nella fiction "Rocco Schiavone" su RaiDue, in cui interpreta il personaggio del medico livornese Alberto Fumagalli.

Noi l’abbiamo intervistato.





Massimo Reale, quanto hai capito che avresti voluto fare l’attore?


 Molto presto, a 9 anni sono stato a vedere uno spettacolo teatrale e sono rimasto folgorato! 



I tuoi genitori  come ha preso questa decisione, ti hanno appoggiato oppure ha cercato di farti comprendere che sarebbe stato auspicabile un altro lavoro?

 Mia madre ama il teatro e quindi l'ha presa bene.... Poi ho vinto il provino all'accademia d'arte drammatica di Roma e quindi li ho messi di fronte al fatto compiuto!



Sei  un attore molto apprezzato dal pubblico e dalla critica, ti ricordi il primo giorno sul set…emozionato…o qualcos’altro?

 Il lavoro mi suscita concentrazione, serietà, più che emozione in senso romantico del termine







Film italiano preferito/film straniero preferito?

 Ne amo moltissimi, italiani e stranieri: tutta la commedia all'italiana poi Sergio Leone, Martin Scorsese,


Hai conosciuto tanti registi e attori famosi, che cosa ti hanno trasmesso in particolare?

A volte ho preferito il loro lavoro a quello che erano come persone. Altre volte ho conosciuto intelligenze straordinarie e sensibili, non c'è una regola se non quella che distingue l'opera dal suo creatore.



A tuo avviso che cosa manca al cinema italiano per ritrovare quella vena creativa che lo aveva reso famoso nel mondo negli anni cinquanta e sessanta?

La situazione è molto diversa da allora. L'Italia degli anni del boom era un Paese in espansione, noi viviamo un momento di decadenza, purtroppo. Penso che potrebbe aiutare investire nel talento, nella qualità.



Siamo a Natale,  e stanno uscendo molti cine-panettoni, l’anno scorso   il 1 primo di Gennaio uscì Quo Vado di C. Zalone   in 1500 copie e fece il botto; il cinema italiano sembra vivere solo sotto il periodo natalizio, non lo trovi mortificante per uno che vorrebbe proporre delle opere più sofisticate?

No, il grande cinema d'autore degli anni d'oro è stato prodotto con i soldi guadagnati dai film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia! Quindi servono entrambi, un buon cinema industriale aiuta il cinema d'autore. Personalmente ritengo una cosa bella ridere con la comicità di Zalone e se è così bravo da fare grandi incassi è meglio per tutto il sistema produttivo italiano. Senza contare che film ritenuti di serie b nel passato sono poi diventati film immortali.


Hai mai pensato di diventare regista? E se ci hai pensato che tipo di film vorresti girare?

Ho diretto documentari, ma film di cinema o tv mi sembrano lontani dalle mie capacità.




In questo particolare momento stai vivendo un momento splendido con la fiction “Rocco Schiavone” (Rai Due) tratta dai romanzi di Antonio Manzini, ti posso chiedere quando è stata girata e se la produzione aveva puntato  inizialmente su di te oppure se hai dovuto sostenere qualche provino?

Ho sostenuto un provino. 







Ci sono state delle forti critiche sul personaggio,  alcuni parlamentari hanno sostenuto che il personaggio è negativo in quanto fa uso di spinelli; alcuni volevano la chiusura anticipata dello sceneggiato, cosa risponderesti ai detrattori, in verità pochi?

Il nuovo spaventa sempre, e poi sottolineerei due aspetti: il primo è che Rocco Schiavone è un personaggio di finzione, come Zorro oppure Robin Hood, e quindi non riesco a capire come possa essere giudicato secondo i canoni della realtà. il secondo aspetto è più complesso e riguarda il compito della televisione: deve essere pedagogica e quindi raccontare la realtà come "dovrebbe essere" oppure raccontare le complessità della vita  e quindi sottoporci storie che hanno contraddizioni e problemi. Nelle fiction straniere, piene di poliziotti geniali e corrotti o medici drogati e abilissimi, è stata scelta la strada della complessità.


Ci puoi anticipare qualcosa sulla seconda serie, non so, il tuo personaggio subirà delle evoluzioni, oppure no?

Al momento non si parla di seconda serie. Io torno al teatro con lo spettacolo "tre sorelle" di Cechov al Piccolo teatro di Milano con Maria Alberta Navello e la regia di Emiliano Bronzino.







Grazie per l’intervista.








martedì 22 novembre 2016

PAOLO RADI INTERVISTA…




   22  Novembre  2016




CONVERSAZIONE

CON IL GENERALE GIOVANNI MARIZZA



LA STORIA E’ LA RICERCA DELLA VERITA’ STORICA.










IL GENERALE IN PENSIONE DEGLI ALPINI  GIANNI MARIZZA HA INOLTRE HA PARTECIPATO A DIVERSE MISSIONI DI PACE ALL’ESTERO, DAL MOZAMBICO ALL’IRAQ. IN QUESTO PAESE E’ STATO VICE COMANDANTE DELLA FORZA MULTINAZIONALE DI PACE. È STATO INOLTRE PRESIDENTE DI UN IMPORTANTE COMITATO DI PIANIFICAZIONE DELLA NATATO E DIRETTORE DELL’ISTITUTO ALTI STUDI PER LA DIFESA, E’ AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI E SAGGI IN MATERIA DI GEOPOLTICA E STORIA MILITARE. FRA I VARI RICONOSCIMENTI SPICCA LA LEGION D’ONORE FRANCESE E LA LEGIONE DI MERITO STATUNITENSE



Generale Giovanni Marizza, Lei ha un curriculum a dir poco invidiabile, Lei ha pubblicato circa 30 libri, da dove nasce questa passione per la scrittura?

Dal desiderio di fissare certe memorie, preservandole dal possibile oblio.








Come mai decise dopo le scuole superiori di intraprendere la carriera militare? C’era alla base una motivazione particolare?


Era un momento storico particolare: il Sessantotto. Tutto veniva messo in discussione, tutto doveva cambiare (ovviamente in peggio), tutto veniva contestato: i valori tradizionali, la religione, la famiglia, l’autorità, la scuola. Quest’ultima si stava trasformando in un “ignorantificio” e le uniche università che funzionavano in modo serio erano le Accademie militari. Da questo punto di vista, per me la scelta fu quasi obbligata.









Veniamo adesso a una missione che in pochi in Italia ricordano: la missione dell’ONU in Mozambico denominata ONUMOZ e condotta dal contingente italiano “Albatros” (dal primo marzo 1993 al primo aprile 1994) con l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Alpina Taurinense. Come sappiamo, l’Italia contribuì alla missione sin dall’inizio con un contingente di oltre mille uomini fornito dalle Brigate “Taurinense” prima e “Julia” poi. Che ricordi ha di questa missione che si concluse con un ottimo esito?


Che si sia conclusa con un ottimo esito è indubbiamente vero perché ancora oggi viene definita “l’unica missione dell’ONU coronata da successo”. I ricordi sono indelebili: le prime ricognizioni effettuate in Africa australe, l’accurata preparazione del personale, i primi contatti con gli esponenti delle due fazioni armate (la filo-occidentale RENAMO e il filosovietico FRELIMO), il trasferimento di un poderoso contingente via nave e aereo, l’espletamento del compito nel delicato Corridoio di Beira, il graduale ritorno alla normalità della popolazione stremata, il ritorno nei loro paesi degli eserciti stranieri occupanti, le prime elezioni politiche, la costituzione delle nuove forze armate mozambicane attingendo in parti uguali fra gli ex guerriglieri e gli ex governativi, la distribuzione degli aiuti umanitari, gli sguardi grati della gente…



Lei ha citato “l’accurata preparazione del personale”. Può essere più preciso?


Il Mozambico era il paese più povero al mondo, le condizioni della popolazione erano precarie, l’ambiente naturale era ostile, le condizioni climatiche erano estreme. In situazioni del genere non ci può essere spazio per l’improvvisazione e pertanto l’addestramento preventivo del personale ha rappresentato un momento fondamentale. Abbiamo organizzato corsi di lingua portoghese per tutto il personale, abbiamo indottrinato accuratamente i militari sulle caratteristiche, usi e costumi del paese in cui avremmo operato, abbiamo anche istruito, in un’area appositamente attrezzata, tutti i conduttori di automezzi a guidare mantenendo la sinistra. Il risultato è stato che ciascun singolo Alpino è giunto in Mozambico del tutto conscio di ciò che avrebbe incontrato e perfettamente in grado di affrontare e risolvere i problemi.








Mentre Lei era impegnato in Mozambico, contemporaneamente l’Italia si trovava in Somalia con la missione Ibis, al comando prima del Generale Bruno Loi e poi del Generale Carmine Fiore, eppure ci ricordiamo sempre della missione Ibis, mentre pochissimo di quella sopra menzionata. Quali sono secondo lei i motivi?


Il motivo è semplice: in Mozambico tutto andò bene e delle cose che vanno bene i mass media non si interessano: meglio trattare (e possibilmente gonfiare) attentati, sparatorie, scandali, rapimenti, uccisioni… Purtroppo il contingente italiano in Somalia, nonostante l’indiscutibile professionalità dei Comandanti da Lei citati e dei capi e gregari a tutti i livelli, non ebbe la fortuna che meritò. Il motivo principale sta nelle caratteristiche estremamente diverse delle due operazioni: di puro peace-keeping quella in Mozambico in seguito ad un accordo di pace firmato dai due contendenti, e di   peace-enforcement in un difficile ambiente da “tutti contro tutti” quella in Somalia.



Mi scusi se ritorno sulla missione Ibis, perché da parte di molti che vi hanno partecipato c’è poca voglia di raccontare, o per lo meno di raccontare a livello oggettivo “che cos’è stata quella Missione”. Mi domando, forse perché abbiamo avuto diversi morti e un centinaio di feriti, oppure perché le morti della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin sono avvolte nel mistero?



E’ normale che i ricordi spiacevoli tendano ad essere rimossi. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Italia le memorie vengono di norma manipolate (esaltandole oltre misura o nascondendole colpevolmente) a seconda delle convenienze politiche, ecco spiegato il motivo per cui la missione Ibis risulta avvolta dall’oblio. Un altro esempio? Pochi giorni fa ricorreva il triste anniversario di Nassirya: nessun telegiornale ne ha parlato.









Cosa hanno rappresentato queste missioni per l’evoluzione dello strumento militare italiano, che oggi è interamente professionale ma all’epoca era ancora basato sul servizio militare obbligatorio?

Queste due operazioni (o meglio tre, perché non dobbiamo dimenticare la contemporanea missione “Pellicano” in Albania) hanno rappresentato un autentico punto di svolta: l’Esercito Italiano, orientato per tutta la Guerra fredda a difendere staticamente la “soglia di Gorizia”, si è ritrovato da un giorno all’altro ad impiegare tre Brigate fuori area contemporaneamente. Significativo è stato l’aspetto “volontariato” nel caso del Mozambico. La Brigata Alpina Taurinense, benché addestratissima e abituata ad operare all’estero (all’epoca esprimeva il Contingente “Cuneense”, unico reparto dell’Esercito facente parte della Forza Mobile della NATO) era composta da personale di leva ma in base ad una direttiva ministeriale tutti gli Alpini dovevano essere “volontari” nel loro impiego in Africa Australe. Si correva il rischio di ripetere l’esperienza del contingente in Libano, che un decennio prima, per garantire la medesima “volontarietà”, aveva costretto al setacciamento dell’intero Terzo Corpo d’Armata per costituire un battaglione di formazione. E invece la risposta degli Alpini fu sorprendente ed encomiabile: tutti in blocco si dichiararono “volontari” e non furono pochi i casi di coloro che spontaneamente rinunciarono al congedo, posticipandolo in maniera tale da portare a termine la missione. Si fece di più: si sondarono le motivazioni dei singoli mediante questionari anonimi e anche in questo caso la risposta fu incoraggiante. Venne alla luce, infatti, che la motivazione largamente maggioritaria ambiva a rendersi utile nei confronti di una popolazione estremamente bisognosa, mentre decisamente trascurabile fu la percentuale di chi si dichiarò attratto dal guadagno economico o dallo spirito di avventura.



Che cosa rappresentano per lei gli Alpini? Sono amati ovunque e la gente li segue con passione, perché questo amore del popolo italiano verso questo corpo?


Gli Alpini, unico Corpo che riesce a portare mezzo milione di persone alle adunate, sono amati ed ammirati per il loro ineguagliabile spirito di corpo e per quanto fanno non solo durante il servizio militare ma soprattutto dopo di esso, in termini di solidarietà e di interventi umanitari in favore delle popolazioni colpite da calamità. Oserei dire che senza gli Alpini in Italia non ci sarebbe la Protezione Civile.



Mi permetta ora una domanda che potrebbe sembrare scomoda, ma che in realtà non lo è per chi ama la verità storica. Nel 1941 l’Italia dichiara guerra alla Russia. L’Italia inviò 10 divisioni di cui tre erano alpine. Il Generale Gabriele Nasci comandante del Corpo di spedizione alpino aveva dato ordine di rispondere “con rappresaglie di severità esemplare” ad ogni atto ostile. Le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli nel caso fosse necessario. I commissari politici delle forze armate sovietiche, i “ribelli“ e gli “elementi indesiderati” come ebrei e nomadi venivano consegnati il più presto possibile ai Tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro destinato. Le risulta che questo appartenga alla verità storica, oppure si tratta di documenti russi redatti per screditare l’esercito italiano nel dopoguerra?


Si tratta in gran parte di esagerazioni propagandistiche. Io piuttosto porrei l’accento sugli innumerevoli casi di fraternizzazione fra reparti alpini e popolazione civile e di aiuto reciproco, soprattutto nelle tragiche fasi della ritirata.



Sono rimasto molto colpito da un suo pensiero pubblicato sul social network Facebook : “VITTORIA! Sì, ma de che?” in occasione del 4 novembre: “….Il Regio Esercito italiano il primo giorno di guerra stava sullo Judrio e l’ultimo giorno di guerra stava sul Piave, cento chilometri più indietro. Diciamoci la verità almeno in occasione del centenario della “inutile strage”. Sono rimasto molto colpito perché Lei sembra volersi discostare dalla solita retorica inerente alle celebrazioni del 4 novembre. Come mai ha pubblicato questa utile riflessione storica?


Intendiamoci: almeno il 95% di ciò che ci è stato raccontato sul risorgimento, sulle guerre di “indipendenza” (che tutto furono fuorché di indipendenza) e sulle guerre mondiali è falso, frutto di verità di comodo costruite a tavolino. Ciò che sorprende è che oggi, a distanza di oltre settant’anni dalla caduta della monarchia sabauda e del regime fascista che quelle frottole inventarono, si continui a parlare imperterriti di guerre di indipendenza o di vittoria militare nella prima guerra mondiale. E’ lampante il fatto che gli eserciti degli Imperi Centrali alla fine della guerra si trovassero ben oltre i loro confini e che il crollo di quegli Imperi debba attribuirsi agli effetti dell’embargo economico e commerciale che li ridusse a morire di fame. La “vittoria” del 4 novembre, dunque, tutto fu fuorché militare. Ma è anche vero che se lo faccio notare a certi miei colleghi che si nutrono di falsi miti e di vittorie taroccate, è come far notare ai partigiani che nel 1945 l’Italia non venne liberata da loro ma dagli Alleati: la loro reazione è simile all’attacco isterico che ha colto Hillary Clinton dopo la sconfitta nelle elezioni presidenziali americane.









A questo proposito, Generale, mi permetta quest’ultima domanda. Il 20 gennaio 2017 Donald Trump entrerà alla Casa Bianca. In questo momento assistiamo ad un vero e proprio “tifo da stadio”: alcuni sono entusiasti mentre altri temono un imbarbarimento della società occidentale, c’è chi lo ha già paragonato a Hitler. A suo avviso quali saranno i futuri scenari geo-politici? Mi riferisco alla Siria, all’Afghanistan e ai rapporti USA – Russia. Qualcosa cambierà oppure la situazione non muterà affatto?


Se c’è qualcuno da paragonare al dittatore tedesco, quella è “Hitlery” Clinton.
Quando per disgrazia del mondo intero era alla testa del Dipartimento di stato americano ha inventato le false “primavere arabe”, ha destabilizzato il Medio Oriente e il Nord africa, ha causato l’assassinio del suo stesso ambasciatore a Bengasi, ha inventato, armato e sovvenzionato l’Isis, ha scatenato un’ondata di immigrazione clandestina che sta mettendo in ginocchio l’Europa intera, ha raggiunto il punto più basso nelle relazioni fra l’Occidente e la Russia, ci ha portati sull’orlo della terza guerra mondiale senza parlare dei suoi misfatti nazionali (corruzione, scandalo delle emails, eccetera…). Il tutto in combutta con il premio Nobel “per la pace” Barak Obama. Trump, per lo meno, non ha mai fatto niente del genere. E se riuscirà a normalizzare le relazioni con Mosca, se eviterà di esportare la democrazia con le armi, se otterrà che l’Europa sia più assertiva e responsabile nella propria difesa anziché dipendere da oltreoceano, ben venga Donald Trump.





Grazie per l’intervista.