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domenica 1 novembre 2015










1  Novembre 2015





CONVERSAZIONE CON MASSIMO COCO



ERA MIO PADRE…
  

Massimo Coco è figlio del Magistrato Francesco Coco ucciso dalle Brigate Rosse 8 giugno 1976. Massimo Coco è musicista  e  docente di violino.






Signor Massimo Coco a giugno saranno quarant’anni che suo papà è deceduto, lei e i suoi fratelli avete in  mente di  ricordalo con una cerimonia pubblica, oppure sarà solo un "fatto"  privato?



Accanto a mio padre morirono anche un agente della Polizia di Stato, Giovanni Saponara, e un carabiniere, Antioco Deiana, si tratta purtroppo di un indelebile "triplice" ricordo; e il ricordo "privato" purtroppo è celebrato tutti i giorni e tutti gli anni, come si può bene immaginare; quello della memoria invece è un dovere pubblico, e anche se in passato è successo che a Genova ci si scordasse completamente di quell'otto giugno del 1976, da anni si svolge sempre una cerimonia sul luogo dell'agguato, con una presenza significativa di autorità civili e militari.

Nel liceo classico Andrea D'Oria poi (lo stesso dove mio padre aveva conseguito la maturità classica, nel lontano 1925) grazie all'U. N. M. S. (unione nazionale dei mutilati per cause di servizio) si organizza un concorso per le classi dei maturandi, la prova è un elaborato scritto sul tema dei cosiddetti "anni di piombo" e le prove migliori sono premiate con una piccola ma significativa borsa di studio offerta dalla Cassa di Risparmio di Genova.

Il quarantennale del triplice omicidio, però, vorrei che fosse l'occasione anche per una riflessione attraverso un pubblico dibattito sulla città di quegli anni: il coinvolgimento attivo e/o le responsabilità morali nelle vicende del terrorismo furono allora davvero troppo importanti.



Com’era suo padre nella vita di tutti giorni?



Una persona di rara mitezza, dolcissima e persino timida, quando era a casa con noi mio padre si trasformava completamente, una figura lontanissima da quella pubblica del magistrato duro e inflessibile, severo e inesorabile custode della legge.

Si sforzava in tutti i modi di tenere separate la vita pubblica da quella privata, cercava sempre e disperatamente di tenerci al riparo dalle "turbolenze" violentissime di quegli anni; impresa difficile visto il suo ruolo di magistrato impegnato ad affrontare vicende di grande clamore, viste le continue attenzioni mediatiche, le scorte armate imposte, le minacce e le ingiurie che raggiungevano anche me e le mie due sorelle, allora adolescenti, persino a scuola.



In televisione un anno fa Rai Uno ha mandato in onda una fiction sul rapimento del magistrato Mario Sossi, nella fiction c’era l’attore Ennio Fantastichini, ha visto quel lavoro, e se lo ha visto è stato contattato dalla produzione o dall’attore per come meglio interpretare suo padre?


Il primo a parlarmi del progetto di una fiction sulla vicenda del sequestro del giudice Sossi e dell'omicidio di mio padre fu Paolo Vivaldi, il compositore incaricato di scrivere la colonna sonora, un caro amico; mi chiese addirittura se avesse potuto scrivere delle parti per violino solista e se me la sentissi di eseguirle, e naturalmente accettai anche se con molta preoccupazione: non mi era mai capitato di essere coinvolto professionalmente, da musicista, nel contorno di quelle vicende così drammatiche e personali, temevo un po' il contraccolpo emotivo.

In seguito ho conosciuto il regista Graziano Diana, ottimo professionista e persona straordinaria, è stato facile stringere amicizia; naturalmente ho letto e approvato copione e sceneggiatura, ma in seguito, dopo avergli regalato una copia del mio libro, ho avuta la grande sorpresa di vedere come, benché le riprese della fiction fossero già cominciate, Graziano avesse cambiato o aggiunto nuovi dialoghi e scene, creando con un giovanissimo attore il personaggio "Massimo" inserito nel lavoro con un ruolo non più di comparsa; dunque in un certo senso ho contribuito sia alla colonna sonora che alla sceneggiatura del lavoro!

Sul tema "fiction" occorre fare comunque alcune precisazioni: la sola verità accettabile è purtroppo quella processuale, nessuna rappresentazione teatrale o cinematografica, per quanto sia fedele alla storia e precisa nella caratterizzazione dei personaggi può sostituirsi a quella; ma resta comunque il ruolo importantissimo di opera divulgativa, di forte contributo alla memoria.
 Purtroppo non ho potuto incontrare Ennio Fantastichini, ho avuto solo uno scambio di messaggi, e ho avuto modo di complimentarmi con lui per la sua interpretazione; ho incontrato invece Alessandro Preziosi, che interpretava il giudice Sossi, e che ha voluto chiedermi notizie su quali fossero stati a suo tempo i rapporti tra mio padre e il giovane magistrato sequestrato dalle BR.


Lei ha scritto un libro, Ricordare Stanca, potremmo anche dire che ricordare stanca ma lacera continuamente, non trova?



"Ricordare stanca" perché la memoria è un dovere, e il dovere è una fatica; una fatica per quelli come me, perché la memoria significa dolore, rimpianto, mancanza e quant'altro si possa comprendere; una fatica per tutti, anche se questo potrà apparire un po' retorico, perché abbiamo tutti l'obbligo ti "restituire la voce" a coloro ai quali è stata tolta con la violenza.
E abbiamo il dovere  di onorare un debito di giustizia; e dovrebbe essere una fatica anche e per coloro che hanno la responsabilità di quanto è accaduto, perché per loro la memoria rappresenta soprattutto un esame di coscienza.



Sulle Brigate Rosse molto si è detto e molto si è scritto, pensiamo al sequestro di Aldo Moro e all’uccisione della sua scorta, molti sostengono che i Brigatisti non fossero soli quel giorno a sparare, ritiene che ci sia dietro un fantomatica “spectre”, mi passi questo termine, oppure che sono stati solo i brigatisti?



Un giorno un giornalista mi chiese se credessi all'esistenza di un misterioso "grande vecchio" che avesse pilotato il terrorismo in Italia; risposi che piuttosto credevo ai notissimi piccoli giovanotti che il terrorismo lo hanno a lungo praticato, e spesso orgogliosamente reo-confessi.

Purtroppo la dietrologia, il sensazionalismo mediatico, e anche la smania di individuare all'impronta i responsabili "capro espiatorio" d'ogni male, hanno creato depistaggio e fantasiose ricostruzioni sino a distrarre l'attenzione da chi aveva ancora la "pistola fumante" in mano.

Detto questo, è anche vero che non c'è uno solo dei tantissimi episodi di sangue legati al terrorismo italiano che non abbia a tutt'oggi punti oscuri, questioni irrisolte e responsabilità non acclarate; non credo allo Stato coinvolto, ma a molti suoi servitori infedeli sì; e vorrei che si evitassero generalizzazioni, ma si puntasse il dito solo e unicamente su nomi e cognomi ben determinati.



 Ci potrebbe meglio il concetto di viPtime, voglio dire secondo lei alcuni figli delle vittime delle Br, avrebbero beneficiato dalla morte del loro padre, in poche  parole, non avrebbero fatto carriera se il loro padre fosse stato ancora in vita, esatto?



Ho sempre considerato tutte le vittime come "colleghi nel dolore", senza stabilire gerarchie; non mi permetto illazioni sulle potenzialità di nessuno.
Certo è che alcuni hanno cercato e ottenuto, per la propria carriera, numerosi privilegi e grande visibilità; e questo genera una sperequazione inaccettabile nel confronto con tantissime vittime cosiddette di "serie B", ovvero persone che attendono ancora da decine di anni i risarcimenti che spetterebbero loro per legge, ma che faticano ad ottenere e sono costretti a richiedere con battaglie quotidiane,  a suon di ricorsi contro una burocrazia statale perennemente ostativa.
 A fronte di tutto questo le "viptime" sono perlopiù  spettatori assenti, oppure pontificano su "stagioni chiuse", "riconciliazione" e "perdono".





Spesso si parla di perdono, certo è facile a dirsi, però poi il problema è la nostra interiorità ferita, in fin dei conti, come possiamo perdonare chi ha ucciso un nostro famigliare?



Di perdono si parla continuamente e a sproposito, in realtà nessuno sa definirlo con precisione; che cosa si intende realmente?
 Nel senso di "rinuncia alla vendetta" sarebbe già applicato in toto, non c'è notizia di nessun evento concreto né tantomeno di progetti in pectore di rappresaglie da parte delle vittime verso i terroristi; nel senso di "rinuncia al rancore" a mio personale giudizio non è praticabile, posso controllare o temperare le mie azioni in ragione di un sentimento, ma non posso scegliere i sentimenti stessi: non posso decidere a tavolino se innamorarmi o meno di una persona, quindi è ipocrita asserire di essere in grado di liberarsi del rancore per scelta; esistono già numerosissime forme di perdono "pubblico", ovvero quello della legge: si chiamano amnistia, indulto, grazia, prescrizione, legislazione premiale...perché non ci si affida solo a quelle, anziché pretendere dalle vittime o dai loro famigliari gesti che avrebbero solo un significato morale e personale?

Oltretutto, come ho sempre ribadito, io non posso "perdonare" nessuno: non solo perché dopo quasi quarant'anni ancora non ho il nome dell'assassino di mio padre, ma perché solo mio padre potrebbe perdonare il suo assassino, io non ho facoltà per decidere in sua vece; l'omicidio volontario genera due condizioni irreversibili:
 c'è chi muore e c'è chi diventa un assassino, questo è "per sempre", occorre che i responsabili di morte se ne facciano una ragione con le proprie coscienze.



Un’ultima domanda è ancora in contatto con i parenti degli agenti che facevano la scorta  a suo padre?



Naturalmente sì, è rimasta una fraterna amicizia, e non potrebbe essere diversamente; non riesco a immaginare, quando penso a Deiana e Saponara, a qualcosa di estraneo alla mia famiglia.





Grazie per l'intervista




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