I N T E R V I S T A
INTERVIEW
ENTRETIEN
ENTREVISTA
ИНТЕРВЬЮ
面试
CONVERSAZIONE
CON IL GENERALE
GIOVANNI MARIZZA
LA STORIA E’ LA RICERCA DELLA VERITA’ STORICA.
a cura di Paolo Lorenzo Radi
IL GENERALE IN PENSIONE DEGLI ALPINI GIANNI MARIZZA HA INOLTRE HA PARTECIPATO A
DIVERSE MISSIONI DI PACE ALL’ESTERO, DAL MOZAMBICO ALL’IRAQ. IN QUESTO PAESE E’
STATO VICE COMANDANTE DELLA FORZA MULTINAZIONALE DI PACE. È STATO INOLTRE PRESIDENTE
DI UN IMPORTANTE COMITATO DI PIANIFICAZIONE DELLA NATATO E DIRETTORE
DELL’ISTITUTO ALTI STUDI PER LA DIFESA, E’ AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI E SAGGI IN
MATERIA DI GEOPOLTICA E STORIA MILITARE. FRA I VARI RICONOSCIMENTI SPICCA LA
LEGION D’ONORE FRANCESE E LA LEGIONE DI MERITO STATUNITENSE
Generale Giovanni Marizza, Lei ha un curriculum a dir poco
invidiabile, Lei ha pubblicato circa 30 libri, da dove nasce questa passione
per la scrittura?
Dal desiderio di fissare
certe memorie, preservandole dal possibile oblio.
Come mai decise dopo le scuole superiori di intraprendere la
carriera militare? C’era alla base una motivazione particolare?
Era un momento storico
particolare: il Sessantotto. Tutto veniva messo in discussione, tutto doveva
cambiare (ovviamente in peggio), tutto veniva contestato: i valori
tradizionali, la religione, la famiglia, l’autorità, la scuola. Quest’ultima si
stava trasformando in un “ignorantificio” e le uniche università che
funzionavano in modo serio erano le Accademie militari. Da questo punto di
vista, per me la scelta fu quasi obbligata.
Veniamo adesso a una missione che in pochi in Italia ricordano: la
missione dell’ONU in Mozambico denominata ONUMOZ e condotta dal contingente
italiano “Albatros” (dal primo marzo 1993 al primo aprile 1994) con l’incarico
di Capo di Stato Maggiore della Brigata Alpina Taurinense. Come sappiamo,
l’Italia contribuì alla missione sin dall’inizio con un contingente di oltre
mille uomini fornito dalle Brigate “Taurinense” prima e “Julia” poi. Che
ricordi ha di questa missione che si concluse con un ottimo esito?
Che si sia conclusa con un
ottimo esito è indubbiamente vero perché ancora oggi viene definita “l’unica
missione dell’ONU coronata da successo”. I ricordi sono indelebili: le prime
ricognizioni effettuate in Africa australe, l’accurata preparazione del
personale, i primi contatti con gli esponenti delle due fazioni armate (la
filo-occidentale RENAMO e il filosovietico FRELIMO), il trasferimento di un
poderoso contingente via nave e aereo, l’espletamento del compito nel delicato
Corridoio di Beira, il graduale ritorno alla normalità della popolazione
stremata, il ritorno nei loro paesi degli eserciti stranieri occupanti, le
prime elezioni politiche, la costituzione delle nuove forze armate mozambicane
attingendo in parti uguali fra gli ex guerriglieri e gli ex governativi, la
distribuzione degli aiuti umanitari, gli sguardi grati della gente…
Lei ha citato “l’accurata preparazione del personale”. Può essere
più preciso?
Il Mozambico era il paese
più povero al mondo, le condizioni della popolazione erano precarie, l’ambiente
naturale era ostile, le condizioni climatiche erano estreme. In situazioni del
genere non ci può essere spazio per l’improvvisazione e pertanto
l’addestramento preventivo del personale ha rappresentato un momento
fondamentale. Abbiamo organizzato corsi di lingua portoghese per tutto il
personale, abbiamo indottrinato accuratamente i militari sulle caratteristiche,
usi e costumi del paese in cui avremmo operato, abbiamo anche istruito, in
un’area appositamente attrezzata, tutti i conduttori di automezzi a guidare
mantenendo la sinistra. Il risultato è stato che ciascun singolo Alpino è giunto
in Mozambico del tutto conscio di ciò che avrebbe incontrato e perfettamente in
grado di affrontare e risolvere i problemi.
Mentre Lei era impegnato in Mozambico, contemporaneamente l’Italia
si trovava in Somalia con la missione Ibis, al comando prima del Generale Bruno
Loi e poi del Generale Carmine Fiore, eppure ci ricordiamo sempre della
missione Ibis, mentre pochissimo di quella sopra menzionata. Quali sono secondo
lei i motivi?
Il motivo è semplice: in
Mozambico tutto andò bene e delle cose che vanno bene i mass media non si
interessano: meglio trattare (e possibilmente gonfiare) attentati, sparatorie,
scandali, rapimenti, uccisioni… Purtroppo il contingente italiano in Somalia,
nonostante l’indiscutibile professionalità dei Comandanti da Lei citati e dei
capi e gregari a tutti i livelli, non ebbe la fortuna che meritò. Il motivo
principale sta nelle caratteristiche estremamente diverse delle due operazioni:
di puro peace-keeping quella in Mozambico in seguito ad un accordo di pace
firmato dai due contendenti, e di
peace-enforcement in un difficile ambiente da “tutti contro tutti”
quella in Somalia.
Mi scusi se ritorno sulla missione Ibis, perché da parte di molti
che vi hanno partecipato c’è poca voglia di raccontare, o per lo meno di
raccontare a livello oggettivo “che cos’è stata quella Missione”. Mi domando,
forse perché abbiamo avuto diversi morti e un centinaio di feriti, oppure
perché le morti della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran
Hrovatin sono avvolte nel mistero?
E’ normale che i ricordi
spiacevoli tendano ad essere rimossi. Se a questo aggiungiamo il fatto che in
Italia le memorie vengono di norma manipolate (esaltandole oltre misura o
nascondendole colpevolmente) a seconda delle convenienze politiche, ecco spiegato
il motivo per cui la missione Ibis risulta avvolta dall’oblio. Un altro
esempio? Pochi giorni fa ricorreva il triste anniversario di Nassirya: nessun
telegiornale ne ha parlato.
Cosa hanno rappresentato queste missioni per l’evoluzione dello
strumento militare italiano, che oggi è interamente professionale ma all’epoca
era ancora basato sul servizio militare obbligatorio?
Queste due operazioni (o
meglio tre, perché non dobbiamo dimenticare la contemporanea missione
“Pellicano” in Albania) hanno rappresentato un autentico punto di svolta:
l’Esercito Italiano, orientato per tutta la Guerra fredda a difendere
staticamente la “soglia di Gorizia”, si è ritrovato da un giorno all’altro ad
impiegare tre Brigate fuori area contemporaneamente. Significativo è stato
l’aspetto “volontariato” nel caso del Mozambico. La Brigata Alpina Taurinense,
benché addestratissima e abituata ad operare all’estero (all’epoca esprimeva il
Contingente “Cuneense”, unico reparto dell’Esercito facente parte della Forza
Mobile della NATO) era composta da personale di leva ma in base ad una
direttiva ministeriale tutti gli Alpini dovevano essere “volontari” nel loro
impiego in Africa Australe. Si correva il rischio di ripetere l’esperienza del
contingente in Libano, che un decennio prima, per garantire la medesima
“volontarietà”, aveva costretto al setacciamento dell’intero Terzo Corpo
d’Armata per costituire un battaglione di formazione. E invece la risposta
degli Alpini fu sorprendente ed encomiabile: tutti in blocco si dichiararono “volontari”
e non furono pochi i casi di coloro che spontaneamente rinunciarono al congedo,
posticipandolo in maniera tale da portare a termine la missione. Si fece di
più: si sondarono le motivazioni dei singoli mediante questionari anonimi e
anche in questo caso la risposta fu incoraggiante. Venne alla luce, infatti,
che la motivazione largamente maggioritaria ambiva a rendersi utile nei
confronti di una popolazione estremamente bisognosa, mentre decisamente
trascurabile fu la percentuale di chi si dichiarò attratto dal guadagno
economico o dallo spirito di avventura.
Che cosa rappresentano per lei gli Alpini? Sono amati ovunque e la
gente li segue con passione, perché questo amore del popolo italiano verso
questo corpo?
Gli Alpini, unico Corpo che
riesce a portare mezzo milione di persone alle adunate, sono amati ed ammirati
per il loro ineguagliabile spirito di corpo e per quanto fanno non solo durante
il servizio militare ma soprattutto dopo di esso, in termini di solidarietà e
di interventi umanitari in favore delle popolazioni colpite da calamità. Oserei
dire che senza gli Alpini in Italia non ci sarebbe la Protezione Civile.
Mi permetta ora una domanda che potrebbe sembrare scomoda, ma che
in realtà non lo è per chi ama la verità storica. Nel 1941 l’Italia dichiara
guerra alla Russia. L’Italia inviò 10 divisioni di cui tre erano alpine. Il
Generale Gabriele Nasci comandante del Corpo di spedizione alpino aveva dato
ordine di rispondere “con rappresaglie di severità esemplare” ad ogni atto
ostile. Le truppe dovevano prendere ostaggi ed ucciderli nel caso fosse
necessario. I commissari politici delle forze armate sovietiche, i “ribelli“ e
gli “elementi indesiderati” come ebrei e nomadi venivano consegnati il più
presto possibile ai Tedeschi, conoscendo ed approvando quello che era loro
destinato. Le risulta che questo appartenga alla verità storica, oppure si
tratta di documenti russi redatti per screditare l’esercito italiano nel
dopoguerra?
Si tratta in gran parte di esagerazioni
propagandistiche. Io piuttosto porrei l’accento sugli innumerevoli casi di
fraternizzazione fra reparti alpini e popolazione civile e di aiuto reciproco,
soprattutto nelle tragiche fasi della ritirata.
Sono rimasto molto colpito da un suo pensiero pubblicato sul social
network Facebook : “VITTORIA! Sì, ma de che?” in occasione del 4 novembre:
“….Il Regio Esercito italiano il primo giorno di guerra stava sullo Judrio e
l’ultimo giorno di guerra stava sul Piave, cento chilometri più indietro. Diciamoci
la verità almeno in occasione del centenario della “inutile strage”. Sono
rimasto molto colpito perché Lei sembra volersi discostare dalla solita
retorica inerente alle celebrazioni del 4 novembre. Come mai ha pubblicato
questa utile riflessione storica?
Intendiamoci: almeno il 95%
di ciò che ci è stato raccontato sul risorgimento, sulle guerre di
“indipendenza” (che tutto furono fuorché di indipendenza) e sulle guerre
mondiali è falso, frutto di verità di comodo costruite a tavolino. Ciò che sorprende
è che oggi, a distanza di oltre settant’anni dalla caduta della monarchia
sabauda e del regime fascista che quelle frottole inventarono, si continui a
parlare imperterriti di guerre di indipendenza o di vittoria militare nella
prima guerra mondiale. E’ lampante il fatto che gli eserciti degli Imperi
Centrali alla fine della guerra si trovassero ben oltre i loro confini e che il
crollo di quegli Imperi debba attribuirsi agli effetti dell’embargo economico e
commerciale che li ridusse a morire di fame. La “vittoria” del 4 novembre,
dunque, tutto fu fuorché militare. Ma è anche vero che se lo faccio notare a
certi miei colleghi che si nutrono di falsi miti e di vittorie taroccate, è
come far notare ai partigiani che nel 1945 l’Italia non venne liberata da loro
ma dagli Alleati: la loro reazione è simile all’attacco isterico che ha colto
Hillary Clinton dopo la sconfitta nelle elezioni presidenziali americane.
A questo proposito, Generale, mi permetta quest’ultima domanda. Il
20 gennaio 2017 Donald Trump entrerà alla Casa Bianca. In questo momento
assistiamo ad un vero e proprio “tifo da stadio”: alcuni sono entusiasti mentre
altri temono un imbarbarimento della società occidentale, c’è chi lo ha già
paragonato a Hitler. A suo avviso quali saranno i futuri scenari geo-politici?
Mi riferisco alla Siria, all’Afghanistan e ai rapporti USA – Russia. Qualcosa
cambierà oppure la situazione non muterà affatto?
Se c’è qualcuno da
paragonare al dittatore tedesco, quella è “Hitlery” Clinton.
Quando per disgrazia del
mondo intero era alla testa del Dipartimento di stato americano ha inventato le
false “primavere arabe”, ha destabilizzato il Medio Oriente e il Nord africa,
ha causato l’assassinio del suo stesso ambasciatore a Bengasi, ha inventato,
armato e sovvenzionato l’Isis, ha scatenato un’ondata di immigrazione
clandestina che sta mettendo in ginocchio l’Europa intera, ha raggiunto il
punto più basso nelle relazioni fra l’Occidente e la Russia, ci ha portati
sull’orlo della terza guerra mondiale senza parlare dei suoi misfatti nazionali
(corruzione, scandalo delle emails, eccetera…). Il tutto in combutta con il
premio Nobel “per la pace” Barak Obama. Trump, per lo meno, non ha mai fatto
niente del genere. E se riuscirà a normalizzare le relazioni con Mosca, se
eviterà di esportare la democrazia con le armi, se otterrà che l’Europa sia più
assertiva e responsabile nella propria difesa anziché dipendere da oltreoceano,
ben venga Donald Trump.
08 Gennaio 2017
Grazie